Il Coordinamento Quarto Pianeta, oltre ad evitare che nel 2012 l’ex Ospedale Psichiatrico di Genova
Quarto venisse ceduto e privatizzato, contribuisce alla sua rigenerazione cercando di riconnettere
culturalmente questa “periferia esistenziale” alla città. Nel 2017 abbiamo aperto lo Spazio 21, le ex
cucine: uno spazio dove mettere al centro la cultura della salute come intersezione di discipline
diverse e dove i temi dell’urbanistica, dell’ambiente, dell’architettura, della socialità, della medicina
e dell’arte possano arricchirsi reciprocamente. Un’occasione per comprendere come la malattia, la
follia, la disabilità, non possano essere separate dall’esistenza e dalla sofferenza delle persone e dal
loro rapporto con la società. Questa complessità ha bisogno di essere costantemente interrogata,
rimettendo al centro la persona, le relazioni, la comunità. In questo modo vogliamo contribuire alla
rigenerazione dell’ex Ospedale di Quarto, affinché possa aprirsi alla città per migliorare la cultura
delle relazioni e della convivenza civile.


Quarto Pianeta 2024 – XIII edizione
“…da vicino nessuno è normale.”*


Nelle ultime edizioni di Quarto Pianeta, in occasione del centenario della nascita, ci siamo
confrontati con l’eredità di Pier Paolo Pasolini e Don Lorenzo Milani. Per il primo indagando la
dimensione di quell’indifferenza, espressione della mutazione antropologica, figlia della cultura dei
consumi che spinge all’omologazione e all’individualismo. Per il secondo provando a confrontarci
con il suo celebre motto, I care, il “m’interessa” che stimola le coscienze nel rinnovare quella
responsabilità che aiuta a conoscere le ragioni dell’umano per immaginare come “sortirne insieme”.
In questa direzione Quarto Pianeta continua il suo impegno originario, cercando di restituire al
lavoro dei servizi alla persona quella dimensione culturale capace di ampliare le forme della
partecipazione, testimoniando che il limite, il trauma, la malattia, sono occasione di rigenerazione
per le persone e il legame sociale.
Quest’anno è il centenario della nascita di Franco Basaglia. Un confronto con un’eredità che oggi
sfiora appena la prassi dei servizi, ma che troppo spesso viene etichettata in modo grossolano, per
evitarne quel coinvolgimento che rappresenta il primo passo verso il cambiamento da lui indicato.
Basaglia oggi.
Confrontarsi con Franco Basaglia, con il suo pensiero e la sua esperienza, vuol dire provare a
confrontarsi con le contraddizioni che ancora viviamo, quando siamo immersi nel brodo
Istituzionale. Quella dimensione dove il rapporto tra gli uomini viene a perdersi, diventa anonimo,
procura spaesamento, perdita di senso, assoggettato all’anonima logica burocraticaamministrativa.
Basaglia, entrato come Direttore nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia alla fine del 1961, in
brevissimo tempo constata come quel ‘dispositivo’, non alleviava le sofferenze delle persone ma
perpetuava solo grandi ingiustizie. Vivendo in prima persona la contraddizione che il suo ruolo gli
assegnava, esprime dissenso con la celebre frase “e mi non firmo”, mettendo così in discussione la
sua stessa autorità. È con questa presa di coscienza che certifica l’impossibilità di fare il medico in
quel modo, tentando un’altra strada, provando a rendere possibile l’impossibile, avviando quella
“lunga marcia attraverso le Istituzioni”, tenendo al centro la relazione con il malato, con il cittadino,
cercando di restituirgli libertà e giustizia.
Una pratica che matura in modo graduale e che lo spinge ad affrontare la realtà istituzionale e le
sue contraddizioni con un atteggiamento volitivo, appassionato, non meramente “realistico”. Per
questo, restituendo soggettività ai malati, attraverso un ascolto interessato delle loro sofferenze,
arriverà nel 1964, ad una presa di posizione unica e radicale: il manicomio deve essere superato,
non può essere riformato, va chiuso.
Una chiusura dello spazio fisico, ma soprattutto una trasformazione di quel dispositivo burocraticoamministrativo che rinchiudeva la follia in manicomio. La rivoluzione basagliana riguarda una
diversa visione della follia, e la conseguente costruzione di un’istituzione nuova, tutta da inventare,
capace di riconoscere che follia e ragione coesistono nella vita di ognuno. Una visione che posiziona
la cura dove le persone vivono, nel territorio, nella città, nella società. È in quel contesto che
dovranno essere costruiti gli strumenti, moltiplicando le opportunità di relazione, migliorando la
salute mentale nella comunità. Una visione ancora attuale perchè impossibile da compiersi in modo
completo e definitivo. Per questo gli strumenti vanno continuamente reinventati in relazione alla
società che cambia. Tre sono i livelli di questo capovolgimento di paradigma. Il primo riguarda la
relazione con il paziente, che si sviluppa a partire dal sapere di chi ascolta ma anche dalla sua
capacità di sviluppare conoscenza attraverso un sentire autentico ed umano. Il secondo,
un’organizzazione di servizi presenti e capaci di prendersi cura anche delle fatiche di coloro che
operano. Il terzo, una società capace di coinvolgersi e di essere attenta ai più fragili, anche per
imparare e per capire quanto valga la pena insistere con una competizione che spesso opprime tutti,
non solo gli ultimi. Questi tre livelli sono strettamente correlati, e ognuno per funzionare necessita
di diventare interdipendente attraverso politiche capaci di un pensiero lungo.
Di questa separatezza, di questa frammentazione e di questa poca integrazione tra i diversi livelli,
ogni cittadino e operatore coinvolto oggi nei servizi alla persona e nelle Istituzioni potrebbe
raccontarne. Per questo ci sembra importante un confronto con il pensiero di Franco Basaglia, con
la lettura dei suoi scritti che insistono per un ottimismo della pratica che promuova una visione piu’
larga, capace di andare oltre la tecnica, capace di tenere insieme pensiero e azione, critica ed
esperienza, per accedere ad una responsabilità più grande, necessaria per immaginare servizi
migliori e giustizia sociale.
Certo i tempi sono altri e anche l’uomo non sembra più essere lo stesso. Orfani delle grandi
narrazioni oggi è diventato molto più difficile orientarsi. Il soggetto sembra muoversi in uno spazio
senza gravità. Tutto sembra essere a portata di mano, a portata di pochi click. In questo contesto le
differenze tra vero e falso, realtà e finzione tendono a sfumare. In queste condizioni diventa difficile
costruire una posizione critica e allo stesso tempo autorevole. Anche in questo senso Basaglia indica
una strada, invitando a disfarci del potere del tecnico per coltivare un’autorevolezza che nasce da
un rinnovato ordine simbolico: una parola che acquista autorità nella misura in cui sa essere con
l’Altro e per l’Altro. Un ordine simbolico capace di tenere insieme il sapere, ma anche la
comprensione e il sentimento per l’Altro. Riprendere il senso della dimensione culturale e politica
vuol dire continuare ad impegnarsi nella rigenerazione delle Istituzioni, che oggi sembrano essere
poco efficaci, forse perché pensate per un mondo che non c’è più’. Come suggerisce Michel Serres:
“…di fronte a questi cambiamenti, conviene escogitare novità inimmaginabili, fuori dai quadri
desueti che formattano i nostri comportamenti, i nostri media, i nostri progetti annegati nella società
dello spettacolo. Troppo spesso vediamo le nostre Istituzioni brillare di una luce simile a quella delle
costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da molto tempo”.
Tornare a Basaglia per riprendere quella “lunga marcia attraverso le Istituzioni”, coinvolgendo più
persone possibili nelle contraddizioni che via via emergono dall’esperienza. Per questo è necessario
comprendere quali forme oggi ha preso il manicomio per provare nuovamente a decostruirlo, capire
quali sono le condizioni che imprigionano le persone e le loro soggettività, per promuovere nuove
forme di partecipazione, mettendo insieme specifiche competenze, spinta ideale, e rispetto dei
diversi ruoli e del pluralismo delle parti.
Come affermava Franco Basaglia nelle Conferenze Brasiliane: “Quando abbiamo iniziato il nostro
lavoro di trasformazione, in realtà abbiamo violentato la società, l’abbiamo obbligata ad accettare
il folle, e questo ha creato grandi problemi che prima non esistevano. Ma la cosa più importante è
che nel momento in cui violentavamo la società eravamo lì presenti per prenderci le conseguenze di
questa violenza, eravamo lì per assumerci, come tecnici nuovi, la responsabilità delle nostre azioni,
per aiutare la comunità a capire la presenza di una persona folle nella società.”
Confrontarsi seriamente con l’eredità di Franco Basaglia, non è né semplice né sbrigativo, perché
implica uno sbilanciamento verso una visione del mondo che coltiva una nuova utopia, come dice
ancora Michel Serres: l’utopia dell’accoglienza, della pace, del doversi chinare di fronte ad un altro
uomo per sentire un senso di appartenenza ad una storia e ad un destino comune.
In questo senso Basaglia non puo’ essere ridotto ad un’immagine da contemplare o peggio da esibire
all’occasione, per poter fare sfoggio di chissa’ quali avvenimenti e trasformazioni che non abbiamo
direttamente vissuto. Per questo, nel celebrare i cento anni della nascita di Franco Basaglia,
invitiamo al confronto con questa utopia, per non assistere impotenti al declino, cercando di
contrastare quel pessimismo della ragione, dimensione culturale del tecnico e dell’intellettuale
borghese a cui forse non possiamo o sappiamo rinunciare completamente.
Franco Basaglia e Don Lorenzo Milani hanno aperto una strada che è ricerca per un mondo più
giusto. Una strada che si compone di due sponde: la prima nel trovare empatia con chi e’ piu’ fragile
e si trova a vivere condizioni piu’ dure, coinvolgendosi direttamente; la seconda nell’aiutare le
Istituzioni a rinnovarsi, (Scuola, Chiesa, Manicomio, Servizi), quando non riescono a svolgere in
modo adeguato le loro funzioni.
Entrambi sono stati poco inclini all’obbedienza ed alla rassegnazione ma fedeli alle persone che
hanno incontrato.
Nel solco di questa eredita’, proveremo anche quest’anno a seguire questa strada, cercando di
convincere il più possibile.


*Verso di una lunga visionaria canzone di Caetano Veloso, Vaca Profana, “…da vicino nessuno è normale” fu stampato a Trieste su una T-shirt realizzata da una delle cooperative, e da lì la frase comincio a
viaggiare….Così molti credono che “da vicino nessuno è normale” sia una frase di Basaglia, e non mancano i manifesti e le t-shirt che gliela attribuiscono. Ma Basaglia ha comunque a che fare con quella frase e con la sua vita italiana, e in fondo potrebbe anche averla detta.
Franco Basaglia, Conferenze Brasiliane – Cortina Editore