La panchina. Su “Noi due siamo uno” di Matteo Spicuglia

Tratto da « forumsalutementale.it

Pubblichiamo questo scritto di Amedeo Gagliardi, che ringraziamo per la bellissima analisi, in occasione dell’incontro di martedì 16 novembre, alle 18.45, all’Arsenale della Pace di Torino.

Peppe Dell’Acqua Dialogherà con Renato e Maria Cristina Soldi, padre e sorella di Andrea, morto durante un TSO

LA PANCHINA
di Amedeo Gagliardi
ottobre 2021

La sua panchina Mauro non l’aveva mai dimenticata, tanto che l’aveva riprodotta in una fotografia appesa in bella vista sopra il mobile in ingresso. Se andavi a casa sua non potevi non notarla ed alla domanda su cosa rappresentasse, prontamente rispondeva che quello era il luogo che lo aveva accolto quando, a meta’ degli anni Ottanta, dopo imprevisti e fallimenti, si era ritrovato per strada.

Oggi nelle citta’ sono sempre piu’ numerose le persone “in panchina”. A volte tendono la mano chiedendo qualche spicciolo. Persone ferite, statiche, congelate da una agonia che lentamente le allontana dal mondo, spesso percepite solo come presenze dis-turbanti. Avvicinarle sembra impossibile. Fermarsi e prestare aiuto pericoloso. Con Mauro invece qualcuno si era fermato e così lui aveva potuto riprendersi la sua vita e mettere su la casa dove poter appendere la foto di quella panchina.

Anche per Andrea la panchina doveva essere importante, ma in quel pomeriggio afoso nella Torino del primo agosto 2015, le persone che andarono a prenderlo non erano interessati a capire come mai stava lì. Non avevano tempo, avevano fretta di intervenire e concludere il TSO. In quella fretta, nel caldo afoso e nella presunzione di chi pensa di essere dalla parte giusta, la panchina diventa così il luogo della tragedia che mette fine alla vita di Andrea in sole due ore.

La storia di Andrea la racconta Matteo Spicuglia nel bel libro Noi due siamo uno, edito da Add Editore. Grazie alla sua abilità di cronista ripercorre la storia della sua famiglia e della sua malattia durata circa venticinque anni, partendo dal drammatico epilogo. Una storia che racconta come la vicenda di una famiglia alle prese con la malattia mentale evidenzi l’incapacità collettiva e dei servizi di comprenderne la sofferenza, di saperla ascoltare andando oltre gli inevitabili sensi di colpa che via via emergono, ed evitando di premeditarne la traiettoria, magari complicandola, verso direzioni definite a priori.

Matteo Spicuglia si avvicina a questa storia come inviato della Rai per seguire in Tribunale il processo per omicidio colposo a carico di coloro che avevano eseguito il Trattamento Sanitario Obbligatorio. E’ in questa occasione che intercetta una frase tra padre e sorella di Andrea: Ricordi papà? Andrea aveva già scritto tutto nel suo diario, e da attento cronista rileva la notizia. Intuendo dell’esistenza di un diario dove Andrea documentava la sua battaglia con i demoni della schizofrenia, durante le varie fasi del processo, Matteo entra in relazione con il padre e la sorella, Renato e Cristina, dichiarandosi disponibile ad approfondire la loro vicenda e chiedendo di leggere il diario.

È alla luce di questa testimonianza che Noi due siamo uno ripercorre la vita di Andrea e della sua malattia, dall’esordio durante il servizio militare, alla panchina di Piazza Umbria a Torino. Attraverso questo diario comprendiamo, come spesso possiamo solo intuire, che la relazione con persone alle prese con una malattia mentale severa come quella di Andrea è minata da episodi costruiti nell’incomprensione, nelle paure ed in mille atti mancati. Episodi che possono aiutare o ostacolare le relazioni a seconda della propensione a cercarne insieme il senso che ognuno inevitabilmente vi attribuisce.

Pensiamo al TSO, al trattamento sanitario obbligatorio: diventato nell’immaginario collettivo più un mandato di cattura, che un’atto di soccorso per chi si trova in uno stato di coscienza e non sente il bisogno di essere curato. Pensiamo a come tale obbligatorietà viene percepita più nel senso di obbligare il soggetto alla cura che al dovere della collettività della cura verso la persona. Pensiamo come la rappresentazione del reale si costruisca attraverso valutazioni spesso solo emotive e come queste si trasformino in reazioni automatiche che impediscono l’accesso a quelle premesse cognitive che le determinano. Poter comprendere l’altro, poterlo in qualche modo capire, significa ascoltare il suo punto di vista ma anche il proprio, provando a costruire un dialogo. Per quanto folle possa sembrare è a partire da queste diverse percezioni, ed attraverso un dialogo interessato, che possiamo risalire alle cornici di senso che determinano i diversi punti di vista: è attraverso questo inter-essere che possiamo praticare relazioni che diventano luogo di comprensione reciproca.

Noi due siamo uno è un libro che consiglio di leggere perchè offre l’opportunità di ascoltare con la distanza necessaria questo punto di vista, attraverso la lettura del diario di Andrea. Un ascolto che offre una prospettiva che altrimenti non possiamo immaginare e che permette di interrogarsi, partendo dalle parole di chi scrive, su come potremmo stare in una ipotetica relazione.

Il diario e il racconto di Andrea, trovato dopo la sua morte nel suo appartamento, ci offre l’occasione di avvicinarci alla sua sofferenza e sensibilità, alla sua poetica, alle sue riflessioni, insomma al suo mondo, comprendendo cosa si perde ogni volta che si riduce la vita di una persona alla sola malattia, rinunciando alla ricerca del senso, alla comprensione di una vita che in prima battuta giudichiamo folle, inutile o comunque lontana dalla prospettiva che si coltiva nella normalità.

Gli operatori che sono un tramite della collettività nei confronti di tale alterità, hanno il privilegio di potervi accedere cercando di costruire ponti anche verso la collettività che rappresentano. Questo è un modo per restituire valore e possibilità a storie come quella di Andrea, provando a far superare quell’automatica reazione emozionale e a rivisitare cornici cognitive irrigidite, per offrire l’occasione di andare oltre quel senso comune diventato sterile e asfittico.

Questa operazione va ripresa con forza sia per assolvere la funzione culturale del lavoro di cura, sia per tessere un collegamento tra la sofferenza individuale e il respiro della città e della comunità. Rendere la collettività partecipe di questo percorso di comprensione aiuta la ricerca di risposte che la persona “in panchina” propone, costruendo comunità più mature, più inclusive, evitando di far precipitare l’incontro con l’Altro in un mero esercizio prestazionale, che rinforza paure e fa emergere l’illusione di poter tenere sotto controllo cio’ che si percepisce come irregolare. Sappiamo che questo, storicamente e come dimostra la storia di Andrea, porta solo ad epiloghi tragici.

Consiglio la lettura di questo libro perchè stimola la motivazione nella ricerca di quel dialogo verso le persone e le comunità, capace di includere, di comprendere, di essere attento nei confronti delle molteplici sensibilità. Un dialogo che per Andrea è purtroppo mancato e che avrebbe potuto far maturare anche per lui un finale diverso.

Attraverso questo dialogo si può generare esperienza diversa, diventando più consapevoli di ciò che accende le nostre emotività. Per riprendersi dallo smarrimento che l’angoscia propone, l’uomo ha sempre avuto bisogno di ricostruire questo piano di fiducia con l’altro, fiducia che diventi senso di appartenenza, sentiero praticabile. Per questi motivi tutte le grandi tradizioni religiose, umanistiche e civili insegnavano il valore dell’accoglienza, per fare esercizio di umanità, per far crescere se stessi in relazione agli altri.

Credo a questo punto sia utile tornare alla panchina. Le panchine in questi anni sono state spesso luogo capace di accogliere persone come Andrea o come Mauro, col cui ricordo apro questa riflessione. Nel centro della città in cui vivo, Genova, per non essere dis-turbati da queste visioni si è scelto progressivamente di eliminarle; sono quasi sparite. L’individualismo e la paura, senso comune e cifra di questi anni, continuano a spegnere questa tensione morale, rendendoci sempre più prigionieri, più cattivi, (dal latino captivi, intrappolati), nell’illusione di essere così forti da poter affrontare la sofferenza da soli. Non bisogna arrendersi, dobbiamo chiedere più panchine, per sedersi e per guardare il mondo con il distacco necessario, meglio ancora se insieme ad altri.

Ho letto questo libro dopo quello di Paolo Milone, L’arte di legare le persone, di cui ho scritto in anche qui. Mentre in quel libro le parole, in forma di epigramma, tendevano a spiegare e chiudere l’esperienza, qui le parole di Andrea, forse perchè non sono mai state dette, aprono alla speranza, alla possibilità, alla ricerca di una interlocuzione che purtroppo con Andrea non si è stati in grado di rendere praticabile. E’ una lettura importante perchè queste parole in qualche modo diventano un’eredità consegnata ad ogni lettore che potrà spendersi nel futuro per migliorare le condizioni della salute mentale di questo Paese.

Come scrive Andrea: ”Spero che tutto ciò, un giorno sarà letto da qualcuno che si renda conto dell’importanza, mia in ciò che ho scritto.