Che cosa si deve dire, ancora, sulla narrazione tossica dei media? Se i giornalisti imbellettano la violenza contro le donne e la chiamano “amore, “passione” e iniettano linfa nella sottocultura del femminicidio; se provano empatia per i violenti e la loro triste sorte ma dimenticano le donne uccise; se continuano a inflazionare l’ego dei killer raccontandoci quanto soffrissero per un “amore non corrisposto”, quanto “desiderassero” la donna che hanno massacrato, quanto speravano in un sì; se fanno da cassa di risonanza a quell’Io, Io, Io Io degli uomini violenti scrivendo ancora di Lui, Lui, Lui, Lui adottandone il punto di vista, se negano il desiderio delle donne parlandoci solo della volontà di dominio degli assassini, se ci dicono che la vita delle donne non vale nulla di fronte alla frustrazione di un uomo e se infine, colpevolizzano le donne uccise: che cosa dovremmo scrivere ancora?

C’è una guerra in atto che si gioca contro i corpi e la libertà delle donne e che prosegue con la narrazione di quella violenza agita. La scelta delle parole indica quale è il punto di vista sul femminicidio. I media ancora non affrontano fino in fondo il nodo della cultura del dominio che muove i violenti e perseverano in un processo di estetizzazione della violenza parlando di amore malato, raptus o delitto passionale. Nel peggiore dei casi colpevolizzano le vittime soprattutto se alla disparità di genere si somma la disparità di status sociale scatenando processi sommari e gogne contro le donne che hanno svelato la violenza come è recentemente avvenuto e continua ad avvenire con il caso Genovese.

— Nadia Somma
D.i.Re Donne in Rete contro la violenza
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